VIA DEL CORSO perché si chiamo cosi?

il tridente  Piazza del popolo al centro Via del Corso a sinistra via del Babuino a destra via di Ripetta






 Ai tempi di Augusto la via si chiamava “via Lata“, mentre già dal Medioevo si chiamava “via Lata” il tratto che dal Campidoglio giungeva a Piazza colonna, mentre la parte restante, fino ed oltre la  Piazza del popolo, era la “via Flaminia“.

 Nel 1466 papa Paolo II, il veneziano Pietro Barbo, stabilì le regole delle corse dei cavalli e volle che le feste del Carnevale si svolgessero lungo questa strada (mentre, fino ad allora, si svolgevano al Monte Testaccio), dall’arco di Portogallo fin sotto palazzo Venezia nel quale risiedeva: il toponimo, allora, cambiò in via del Corso, con evidente allusione alle corse. Queste avevano come partecipanti gli ebrei, costretti a correre dentro i sacchi e obbligatoriamente dopo aver fatto dei pranzi abbondanti per rendere il tutto più divertente, per chi li osservava ovviamente, i nani, i buffoni tra i lazzi osceni del popolino, i bambini cristiani, gli anziani oltre i 60 anni, gli storpi ed i deformi. Si svolgevano anche le corse degli asini, dei bufali, ma, soprattutto, era attesa la corsa dei cavalli detti “barberi”, perché provenienti dalla Barberia (una vasta regione dell’Africa settentrionale), anche se i più appartenevano alle scuderie delle famiglie patrizie romane.




corsa dei cavalli berberi

 Le povere bestie correvano “scosse”, cioè senza fantino, sollecitate da pece bollente sparsa nella parte posteriore o da palle con aculei assicurate alla groppa, fino a piazza 
Venezia, dove andavano a sbattere contro grossi tendoni tirati attraverso una via, appunto chiamata “via della Ripresa dei Barberi” (demolita alla fine del secolo scorso in occasione della costruzione del Vittoriano), dove, pronti, i loro proprietari o gli stallieri li riprendevano in custodia. Questo spettacolo carnevalesco fu abolito nel 1883 dal governo italiano, in seguito ad un incidente mortale occorso ad un ragazzo che, nell’attraversare la strada, fu travolto dai cavalli sotto gli occhi della regina Margherita.

Dopo la Corsa dei Barberi del martedì grasso, e quindi alla chiusura del Carnevale, il popolo straripava nel Corso al grido univoco: “Mor’ammazzato chi nun porta er mòccolo!“.




la  festa del moccoletto

 Era un gioco frenetico, un’esaltazione quasi selvaggia, una battaglia, dove ognuno cercava di soffiare e di spegnere il “mòccolo” (ossia qualsiasi cosa che bruciasse, fiammelle, torce, candelabri) del vicino, tutti mascherati, l’ultimo divertimento che salutava la fine del Carnevale. Sotto Pio IX, nella sera dell’Epifania del 1854, il Corso venne illuminato a gas per la prima volta. Si emanarono, poi, provvedimenti per trasferire in altro luogo i macellai, i tripparoli, i fegatai, i friggitori, i pollaroli, al fine di salvaguardare la decenza della via destinata al pubblico passeggio. 


Si aprirono, allora, negozi di confezioni e di alta moda, librerie, antiquari e gioiellieri. Nell’ultimo Ottocento era di rito la “trottata” al Corso, una sfilata di carrozze nelle quali sedevano nobili donne con elegantissimi abiti




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